giovedì 26 giugno 2014

Gli abbandoni estivi

Come ogni anno si ripresenta puntuale l'abbandono per una quantità impressionante di animali. O per meglio dire quel "maledetto gesto" della rinuncia dei nostri amici, quelli che durante l'anno non si sognerebbero mai di lasciare noi, probabilmente nemmeno se ne avessero la possibilità di farlo. L'abitudine scandalosa, ignobilmente portata avanti da troppo tempo e quasi mai sanzionata nella maniera adeguata, ha creato con il tempo un comportamento viziato e lontano dal credo di quello che dovrebbe essere il vero amore per gli animali. Idealista, forse sognatore, il nostro amico (spesso a quattro zampe) ci guarda e si immedesima in noi; ritrova la sua stella polare nel nostro atteggiamento quotidiano invernale. Ma tutto assume un altro aspetto d'estate; le vacanze innescano una bomba a orologeria che impone il distacco da chi abbiamo amato forse solo per convenienza. Anzi: sicuramente solo per convenienza! Perché succede questo? Non c'è risposta razionale. Come un mozzicone di sigaretta, la fiducia di questi nostri compagni si consuma e accartoccia su se stessa, bruciata dalla paura e recisa da quel cordone ombelicale che fino a poco prima legava l'intera famiglia alla bestiola. Non vorrei vedere più queste scene, fanno male al cuore e all'anima, non è più possibile annidare la coscienza in quei pochi mesi e riporre l'amore solo per quel breve periodo dell'anno; la dignità di ogni essere vivente va rispettata, sempre e, d'estate, non esiste clandestino in casa propria. Li dobbiamo accogliere nella nostra famiglia a braccia aperte, per tutto il periodo della loro esistenza, senza limiti o riserve. Senza se e senza ma. Un cane o un gatto non sono oggetti difettosi da buttare! Diffondete questo pensiero, sperando e immaginando sia anche il vostro… Condividete questo articolo, se anche voi come me credete che la consapevolezza possa cambiare la mentalità delle persone. O condividete anche solo la vostra idea, purché faccia comprendere il male che arrechiamo con queste azioni sciagurate. Loro non ci abbandonerebbero. Perché noi lo facciamo?
Con fiducia.
Pier

giovedì 19 giugno 2014

Si è svolta Lunedì 16 giugno alle ore 20.30
presso la libreria Mondadori

del centro commerciale "Le due torri" di Stezzano (Bg),
la presentazione del romanzo
"Dicembre mai cercato"
di Pier Mazzoleni...
Grande affluenza di pubblico e tanti libri venduti!

Grazie al pubblico intervenuto, a Roberto Cecchinelli della Libreria Mondadori con cui si è piacevolmente dialogato, all'Editore Giovanni Fabiano di David and Matthaus.




martedì 25 febbraio 2014

Ritratto di donna


Penso a te come a un appariscente albero mosso dal vento, come a una foglia irrorata di linfa, dall’ossatura fine ma solida. Ti immagino sconfinata nella notte più profonda, pretesto per attingere le mie inquietudini. Tu, profilo mai supplente di nessun altro contorno, anima vagante tra i cuori bruciati, profondi uno strano amore frutto di un innato fascino. Il tuo vivere è una lunga scala di emozioni e colori accesi. Mille espressioni migrano di minuto in minuto sul tuo volto, trasformando il sorriso ora in un cielo, poi in un pianto e ora in un romantico romanzo. Quel viver che ti accompagna. Oscena è la miseria dell’incontro scritto con qualche miope mascalzone, commerciante di minutaglie di scarso valore. Egli vorrebbe riempirsi le viziose tasche svuotando le tue, desidererebbe farti prigioniera della sua casa cosicché, senza le chiavi, tu debba esser costretta a un percorso obbligato: il passaggio sulle sue gambe. Gabbiano incantevole e libero nell’aria dagli infrangibili propositi ciondoli a tratti, pur essendo eccellente volatore. Le ali, se prestate, non si apriranno mai del tutto: solo a nascere con quella radice ci si doterà spontaneamente del volo. Diversamente, ambirai al cielo come Icaro e potranno promettertele, ma non le avrai, le tue ali. Umiliazione al punto di essere vessata e tormentata. Ogni tuo gesto che insorgerà sarà come un graffio sullo specchio, che scivola e mai ferisce. Aguzzini in frac e scarpe lucide straripano, tentando d’invadere i tuoi argini maestosi, barriere che soltanto la solidità di un certo cemento renderà inoppugnabili.
Scompari e riappari come un’ombra, notte e giorno, abbandonando sulla strada qualche ritardo per far sì che il desiderio aumenti e il sex appeal faccia presa sul tuo servitore. Che alla fine ti diventerà padrone, ahimè, austero e grave. E più il tuo erotismo spiccherà in territori vasti e pruriginosi, più la ferocia tirannica proverà piacere nell’intingere piccoli tratti di quel suo inchiostro indelebile. Che non scrive ma offende; non impreziosisce e abbandona. La tua aureola però non si è ancora formata, anche se io la vedo. Sia che ti guardi dal basso o che ti osservi dall’alto, scorgo tanti piccoli punti pronti a far germogliare la corona di luce. Non averne paura, poiché il vento che spira forte non potrà staccarla mai, sarà, anzi, il completamento del tuo profilo angelico. Donna, ritratto di grazia, se autentica e naturale. Canticchi a mezza voce il tuo canonico destino, trascurando spesso quello che la logica ti pone come semplice risposta. Cercherai il portico di un atipico convento presso cui riposare quel tuo strano spostamento. Non v’è chiostro buono per custodire ogni tua piega vitale. Albero senza trucco e donna senza radici tu sei. Quando la scorza friabile diventerà corteccia, avrai superato il ponte che collega un porto a un altro; e ogni porto sarà uno strato di pelle nuova, più forte. È l’esperienza che verrà in soccorso e non importa se arriverà con il sole o con la pioggia: si soffre sempre prima di esultare e tu, donna, lo imparerai.        

Ma devi volare… è essenziale che tu voli!
Sconfina pure senza paura, Bellezza non è mai nemica, se ti sposti tra boschi e montagne innevate superando deserti e mari non potrai mai morire d’inerzia. Tutt’altro. Sarà proprio madre Natura ad accompagnare le tue dita verso la gloria. Ma non pensare neanche per un istante di farti fare un quadro da qualcuno: nemmeno fosse il pittore più illuminato e celebre. Lascia che siano tempo, destino e vento a soffiare un sottile carboncino su quella grande tela immaginaria, mostrando i tuoi tratti. Solo quello è il ritratto cui ambire, l’unico vero che ti rappresenterà. Donna, come una città sicura, protetta da antiche e coraggiose mura che attraggono sogni e desideri di uomini autentici, galanti e intrepidi. Intuizione, riflessione e lusinga: tutto scorre nel fiume delle piccole linee che hai sul viso. Nelle dita hai i pensieri e nelle pieghe delle mani c’è il tuo destino, che quasi riesci a percepire. E le cose d’amore sono lì, dentro quelle tue mani senza macchia, fiduciose e bianche. Della morte non esiste traccia esteriore; la torbida estasi della vecchia con la falce, non arriverà a piegarti le palpebre, nemmeno a morderti la carne. La tua armonia si spegnerà nel giusto momento in cui, tra luce e buio, alcune particelle prenderanno vita come atomi immortali, duplicando la tua persona che, a quel punto, avrà raggiunto il suo scopo: perpetuarsi nel tempo. Con un leggero oppio, profumi le stanze in cui vivi e, per qualche minuto delle tue giornate ti sacrifichi al torpore della provvisorietà… insorgendo sulla coscienza e librando nell’aria la voglia d’emozione, di trasgressione. È la tua droga, leggera come te, non sbagliare a usarla! Il male ha sempre provato a investirti per la strada, a scagliarti fulmini e, ancor di più, a entrare nella tua casa, insudiciandoti il corpo e stremandoti i fianchi. Ci proverà ancora, rincorrendoti veloce. Ma sarai tu la più svelta. Non pensare alle curve e alle salite che incontrerai; guarda la via come un’unica retta, e punta fieramente il tuo obiettivo.

sabato 22 febbraio 2014

Sapore di tacco (Racconto breve)


Fine della serata. Diedi uno sguardo attento e circospetto alla strada, già deserta, e mi accorsi che, a parte un cane che stava orinando nella piccola aiuola di un albero, ero l'unica persona in quel momento, in quella via. C’era una tale quantità di spazzatura che strabordava dai cestini e le enormi masse di cartoni impilati davanti ai negozi impedivano quasi il passaggio sul marciapiedi, per cui dovetti camminare per la strada; evidentemente il camion per la raccolta dei rifiuti, sarebbe passato di lì a poco.  Saranno state le undici di sera, non indossando l’orologio potevo solo presumerlo, dato che lo spettacolo teatrale era da poco terminato. Pareva il coprifuoco e, d’altronde, vivevo in una cittadina di provincia, tutta casa, lavoro e… prostituzione! Si, non era certo facile vivere nella piccola provincia italiana negli anni sessanta, nel periodo di quel 900 voglioso e fomentatore; erano gli anni dei cambiamenti e del bisogno di identità. In quella provincia lombarda padroneggiava una certa casta di perbenisti, gente che non si sa come facesse ad avere sempre in mano le sorti di tutto; detenevano il monopolio della vita lavorativa, culturale. Tutta la vita sociale era nelle loro mani! E questo noi trentenni di quel periodo, lo sapevamo benissimo.

Tirai fuori un fazzoletto per soffiarmi il naso mentre camminavo un po’ assorto, rimirando il cagnolino, che dopo aver pisciato mi osservava curioso, e mi accorsi che mi era caduto in terra il piccolo crocifisso di latta trovato poco prima davanti al teatro presso cui avevo assistito a una recita. Mi chinai svogliato per raccoglierlo, mentre da un abbaino sotto il palazzo, posto lì sul pelo del marciapiede, vidi qualcosa che attirò la mia attenzione. Mi parve di scorgere qualcuno che ballava, o forse stava prendendo lezioni di ballo, c'erano due donne che indossavano scarpe con i tacchi e degli allegri gonnelloni rossi, svolazzanti. E c'era un signore, presumo mio coetaneo, che gesticolava nell’aria con ritmo ben preciso, dentro un paio di pantaloni alla zuava di un colore cangiante quasi fastidioso, stretti in vita, che si appoggiavano ai polpacci magrissimi sotto cui sfavillavano due calze color panna. Niente meno!

Mi sembrava tutto così fuori luogo rispetto alla strada, deserta. Nel frattempo notai che due netturbini, stavano raccogliendo l’immondizia, e un camion avanzava lentamente la sua corsa emanando effluvi tutt’altro che primaverili. Non riuscivo a vedere bene a causa del buio, allora misi gli occhiali e mi parve di notare che gli abiti dei netturbini non erano quelli soliti di lavoro. Niente tute, guanti da lavoro o cappellini gialli e patacche di unto ma pantaloni,  camicia e berretto trendy. “Ma come”, dissi a voce alta appoggiando le mani ai fianchi, “non è ancora Carnevale”!
Rimasi qualche secondo attonito con lo sguardo perso a immaginare, mi chiedevo se fosse la sera dei matti; poi, senza alcun pensiero, posi lo sguardo sul  dorso della mia mano sinistra e mi accorsi che era solcata da due strane righe che poco prima non avevo visto. Non ci pensai troppo perché non sanguinavano, credetti che erano i segni delle inferriate a cui ero appoggiato. Mi rigirai verso la stanzetta e vidi, particolare non trascurabile, la camicia gialla a pois neri e il farfallino bianco del direttore. Mi soffermai sulla sua pettinatura, un po' alla Rudy, Rodolfo Valentino, con la riga marcatissima sulla destra, da cui sparava un ciuffo di capelli neri evidentemente mal pettinato. C'erano altri due tizi che si muovevano a tempo e indossavano scarpe e vestiti sobri, dando la mano alle signore che danzavano feline, con lo sguardo altero e il viso inclinato a nord ovest. Presumibilmente si trattava di ballerini. Mi colpì il fatto che non c'erano accese luci a giorno, ma tutto si svolgeva in una penombra quasi malandrina e una luce fioca ambrata, tutto intorno creava un'atmosfera particolare. Sentivo benissimo un vecchio tango argentino che ritmava nell'aria alcuni accordi e il suono di un bandoneon, mi piacque subito e anzi mi chinai ancor di più sulle gambe, sentendo in un primo momento il dolore dei legamenti, di sicuro infiammati dal camminare della giornata e dall'operazione subita alle gambe un mese prima. Cominciava a piovigginare una acquerella insignificante ma continua. Il camion aveva ormai girato l’angolo, sentivo ancora il vociare in lontananza di quegli uomini, e il rumore lontano dei bidoni sbattuti contro le lamiere del camion, per svuotarli del tutto dai detriti attaccati sul fondo. I vicoli erano tornati ad essere percorribili e due coppiette, passeggiandomi a fianco, mi osservarono incuriosite; beh, ero messo effettivamente in una posizione strana! Il cane era ancora li, seduto su se stesso, sotto l’acqua, lo avevo conquistato, con i suoi occhi scuri non mi mollava. In quel momento avvertii il bisogno di far pipì, complice la pioggia diventata invadente, e il fatto che non avessi l’ombrello. Ma stetti ancora a guardare perché la situazione era interessante, finché il capo mi notò e, un po' seccato, mi fece un cenno esplicito con la mano, come volermi invitare ad andarmene. Io risposi con una smorfia leggera e tutt'altro che maleducata, come per insinuare semplice curiosità e nient'altro; lì appollaiato nel mio metro quadro non facevo male a nessuno, non parlavo e non respiravo quasi.

Passarono dieci buoni minuti e il coreografo, fermando le danze dopo un mio eccessivo starnuto versato interamente sul vetro della finestra leggermente aperta, mi si avvicinò e, imbizzarrito, mi chiese senza mezzi termini di andare via, che li si stava lavorando e io li deconcentravo. Fui stupito lo fissai come per sfida, con una gran voglia di sputargli in faccia ma avrei colpito il vetro. Sinceramente non capivo il problema e, anzi, ero interessato all'evolversi della serata che mi stava piacendo. Rudy, prese questo mio atteggiamento come una sfida, borbottò alcune parole in un dialetto che non capii, pur parlandolo io, e tirando la tendina della stanza oscurò quel quadro e quelle scene. In quel mentre sentii chiudere, sbattendo, la finestrella e vidi accendersi la luce nella stanza. Per quella sera, dovetti smettere di origliare.

Ma solo perché, nel frattempo, i due netturbini avevano finito il giro del quartiere e avevano preso il loro posto: a fianco delle due ballerine! Arrivarono correndo, puntualissimi alla stanza dove si stava provando, era mezzanotte appena suonata, l’ora dell’appuntamento. Gli altri due ballerini, semplici sostituzioni, lasciarono a loro il posto. Cominciarono in quel momento le danze, quelle vere, mentre dal vetro, scorsi Rudy uscire dalla stanza, con quell’aria da saccente. Era diretto verso me, perché lo vidi girare il caseggiato che stava per arrivare con passo veloce; io ero ancora lì abbassato sulle mie ginocchia ormai quasi logore, eccolo mi era vicino. Cominciai ad alzarmi, lentamente per non strapparmi i legamenti e nel mentre lo sentii:
“Dottore”, mi disse con aria concitata e molto servile, “signor regista, guardi, le ho preparato già tutto io, come mi ha chiesto stamattina: ci sono i quattro ballerini, le musiche giuste, il personale, il macchinista e le comparse che servono per le sostituzioni durante le scene. E’ tutto pronto per cominciare il suo film sulla musica sudamericana. Dottore, si ricordi che alle quattro stanotte, arriverà il produttore esecutivo, per assistere ad alcune scene e per parlare con lei. Mi ha chiamato pochi minuti fa e smania letteralmente dalla voglia di incontrarla”.
Poi Rudy, avvicinandosi di molto mi disse bisbigliando in un orecchio:
“Guardi, signor regista che il produttore, il Dottor Leonardi, mi ha confidato di essere un suo grande ammiratore e ci terrebbe ad iniziare una bella collaborazione con lei. Lei sa che Leonardi è uno degli uomini più ricchi d’Italia, vero”?
Scherzi del destino o della mente?
Ora, poteva cominciare lo spettacolo.
E mi ritrovai, nel giro di cinque minuti, seduto sulla mia sedia, con il mio nome, a dirigere quel film.
Ciack, si gira!

(Copyright © 2013 Pier Mazzoleni, tutti i diritti sono riservati. È consentita la riproduzione parziale o totale solo se viene citato l'autore).


Nota dell’autore.
Il racconto breve è stato scritto in ottobre 2013.
Ogni domanda, scaturita da questa lettura, è lecita. Forse rimarrà senza risposta, in questo capitolo.






domenica 16 febbraio 2014

Delirio di scrittore

Non è un morbo, un'epidemia, che contagia secondo stimoli prestabiliti; non è nemmeno l’eruttare di un vulcano in attività. O ancora il proferir parola di un vagabondo avvinazzato, profondamente addolorato o particolarmente felice e inasprito dalla vita. L'erma ben solido e non improvvisato su cui si fondano la scrittura e la libido dei suoi fraseggi, è qualcosa di più; qualcosa che ha origine da un equivoco, da parole dette sul filo dello sproposito. Potrebbe essere  il nocciolo che nasce da un’analisi attenta, da una scorrevole logorrea, che appartiene alla penna di un castigato autore. Non v’è recinto tanto capiente da poter contenere le liti, le vertenze, le assenze, il coraggio, la ragione, le gioie e le disfatte di un imperituro letterato. Il disordine nasce dalla non scienza, così dicono, la quale sconfessa il raziocinio messo al palo a sua volta dalla mente libera e aperta all'infinito. Non esiste suddito di un foglio particolare; c'è invece un foglio vuoto che ha, sempre, almeno un padrone, la cui ubbidienza d’arte è il suo sardonico piacere di essere notato e di farsi leggere. Necessità. Esibizionismo. Urgenza. Tutto si immagini e ancor non basterebbe a definir tale l’artista. Ogni stagione porta con sé frutti e colori propri, come ogni uomo ha in sé caratteristiche peculiari. Non ci sono termini precisi per stabilire e decretare l'estro farneticante. Ci si fida del parere dei sapienti. Costoro gridano a gran voce, sorretti dal peccato mortale, di conoscere l'ultimo degli illuminati di turno. Il portatore degli allori più verdi. Lo scrittore ammantato, vestito dei suoi stessi assiomi, che si promette di lasciare un po' del suo intelletto su questa terra dolorante. E il popolo, il volgo volgare, dovrebbe inchinarsi e gettare petali di rosa al suo passaggio? Sì! Sempre. Questa è una legge che arriva dall'aldilà, finezza primordiale anche se maleodorante. È un dovere che puzza di carcassa in putrefazione. 
Affermano i luminari: riverisci l'eloquenza e impara da chi ne sa! Lo dicono loro, i saggi. Al nascere del genio si squarcino i cieli e si dividano le acque, perché la sua mosèiana mente abbisogna di luce e di fondali sicuri su cui appoggiare i piedi soffici. Il vero dotto è sovversivo, come una freccia che parte e mai arriva per sua scelta; è un dardo contrario ai facili obiettivi. È un frenetico esalatore di gas che paralizza. Il poeta sublime è il sommo straniero che raduna in branco le greggi di parole sparse. Quello che rovista nella farina dei suoi armadi, raggranellando ogni briciola per farne pane di sapienza, eternamente commestibile. Il tempo non può cambiare la consistenza delle sue idee. Non v’è pietanza che egli non possa insaporire, a cui non prestare attenzione e, successivamente condividere. Il delirio, o scrittore, è il popolo che abita la tua mente dilaniata dal gridare di chi non ha voce, e parla per vece tua. Tu sei il vero alfiere della scacchiera! Non certo i re o le regine, possono raccogliere i chicchi di selce che, lasciati cadere a terra da un pollicino qualunque, segnano la strada per il paradiso. Tu sì, li cogli. E l'orgoglio, il tuo, è ben felice di sistemare i cassetti con tutta la saggezza di cui disponi. Sei irritabile e indolente. Asciutto. Sporco come un operaio risoluto, poetastro, a volte sai dove e quando partire, e, non di meno, quando finire. Libero come un estremo fuoco nella mente e poco nelle scarpe, muovendoti ad libitum sempre sugli stessi territori, imbarazzi chi al tuo cospetto non ti sta ad ascoltare. Chi capirà il tuo dolce scorrer di labbro, come di biro? E il tuo parlar ferace, chi avrà privilegio di comprenderlo? Che il delirio ti sia cultura e diversità, amico, ma non sia cloaca entro cui infilare i nemici. Hai l'obbligo e non solo il pregio o il vezzo di essere uomo colto e onesto, diritto, emancipato e non curante dei tabù. Come il sole l’ha di scaldare la terra. Il tuo fucile è carico di delirio festoso; i tuoi orizzonti diventeranno il sapere comune. Ogni lacrima spesa e sofferta sarà di importante levatura. Levigato non giungeresti ai posteri, scabro tagliente e ferito diventeresti eterno. Il tempietto che, per te costruiranno, sorgerà sull'ultimo dei sette monti che partono dal fango e giungono in cielo. Nessuna croce, né di legno o di ferro e né di carne, sarà piazzata sul suo vertice: non ce ne sarà il posto, poiché la tua, terrena, riempirà già ogni centimetro di quel tetto. Non potrà esserci vizio se il delirio sarà cibo commestibile, per sfamare gli uomini di buona volontà! Vivifici gli impulsi che nasceranno dalle tue malizie. 
La ventura corre sempre sul filo della bellezza. La sventura galoppa sulla lama di un rasoio tagliente, pronta a cogliere il minimo passo falso, l'occasione per tagliarti le vene. Ogni momento. Scrittore delirante che hai ipotecato il destino, senza che nessuno ti suggerisse opinione o, prima ancora, t’insegnasse a camminare, respirare o mangiare. Ami far l'amore con le tue stesse parole, emozionandoti davanti allo specchio, eccitandoti con talune ipocondrie. Giocando col nettare di una mentula sempre in tensione: la penna. Che sai usare, delicato angelo a cui ho strappato una penna, nel tentativo di giungere anch'io alla vetta. Se la mente non supera la solitudine della bruma, se non va oltre l’oblio della palude bramando gli antipodi e, ancora per proseguire, sbucando all'opposto del mondo per essere piroettata nel cosmo, tra stelle e pianeti in cerca degli dei, se questo non succederà, rimarrai un misero uomo. La cura è un medicinale che non fa sconti o proroghe. Come il deportato si avvierà alla sua prigione, tu, ti concederai perennemente alla normalità della morte, in povertà d’intelletto e scrittura. O in un lago sconosciuto, nuoterai nell’enfasi del tuo delirio: senza averlo scelto. Al pagamento del conto, la ricevuta sarà il fasto che ti tributeranno le generazioni, dopo. Che pagheranno, comunque, sempre troppo poco il prezzo che tu hai pagato in vita per il tormento e le inquietudini, le sevizie subite e le strade senza luci. E non ci vorranno finta umiltà o ignobile modestia per aprire quella porta. Non servirà nemmeno bussare. Occorre depressione, smacco, insuccesso e oltraggio, per poter annegare in un bicchiere. L'essere umano, innalza il trofeo del godimento affondando la spada nel dispiacere collettivo. L’essere umano: non tu! Il tuo fine, delirante e operoso estensore, è quello di spingerti un po’ più in là di chiunque, immergendo la punta nelle solitudini più assolate e l’occhio nei venti più impetuosi. Il mare che hai dentro, è quello che colpisce la riva sempre più forte di quello che hai davanti; è quello la cui schiuma, deposita pensieri magici.

(Copyright © 2014 Pier Mazzoleni, tutti i diritti sono riservati. È consentita la riproduzione parziale o totale solo se viene citato l'autore).